"[...] La scultura di Monica Lugas premiata all'unanimità [...] Andalas impressiona per la sua semplicità, nella quale si concentrano aspetti formali e contenutistici: volumi tesi organicamente congiunti in maniera architettonica.
La realizzazione tecnica fa prova di una granda sensibilità artistica. Le tre forme costituiscono un'unità improntata di energia elementare. I due elementi riposanti sullo zoccolo ricordano abitazioni arcaiche e, nonostante ciò, la loro configurazione è legata al linguaggio formale della nostra epoca.
L'opera è atemporale e d'attualità allo stesso tempo"
Matthias Frehner, curatore Collezione Oskar Reinhart, Zurigo-Svizzera. Dal catalogo Premio Regionale di Scultura Costantino Nivola 1° edizione 1995 


"Plasma argilla, taglia marmi, impasta cemento, incide tronchi di quercia. Tutto nel sogno, e nella prospettiva esatta, di trasformare i suoi modelli in interventi pubblici, per giardini, possibilmente. Monica Lugas progetta scale impossibili, forme rotonde ma impervie, monumenti al vuoto che riportano forme primigenie, al dialogo fra negativo e positivo. Scale che scendono, che intercettano la luce del sole, o che lasciano scorrere un rivolo di pioggia. Non si possono praticare, sono solo da vedere, da pensare: sono concetti - ma anche poesia, levità - travestiti da gradini"
Raffaella Venturi. Dal catalogo della mostra Premio Mario Razzano per giovani artisti 2° Edizione 2004-2005 Benevento.

“Monica Lugas si è formata come scultrice fra Firenze e Carrara, Ingolstadt e Salisburgo; eppure nel suo immaginario formale la Sardegna con la sua cultura arcaica è stata e resta tuttora centrale. Anche quando (soprattutto negli ultimi due anni) il suo orizzonte si è allargato a tematiche sociali. come si evidenzia nell'attuale mostra ospitata all'Ex Blocchiera di Tortolì.

In due ambienti separati ma adiacenti la scultrice ci propone un percorso caratterizzato dal continuum cromatico dove il bianco- più o meno brillante e seconda del materiale impiegato (ceramica con o senza invetriatura, silicone, marmo) e del procedimento di lavorazione-domina incontrastato, pur nelle diverse implicazioni proposte di volta in volta dalle varie opere.

Un percorso dal paradiso all'inferno, che il cromatismo uniformato  a prima vista può mascherare, ma che ad una visione più meditata si rivela in tutta la sua forza.

Da un lato il paradiso della soddisfazione dei sensi e della pienezza vitale scaturente dal nutrimento materno, nel candore dei seni e mammelle in ceramica. Per giungere gradualmente, attraverso la sequenza dei seni ingabbiati (simboleggianti la costrizione che comunque accompagna la condizione della donna) all'inferno dei diritti negati, dell'andare raminghi su barche prigioni ondeggiando senza più identità, sospesi tra privazioni, sofferenze corporali e lo spettro della morte come meta finale.

L'allestimento delle due sale è raccordato e accomunato dal titolo “Lunàdiga” nelle tradizione pastorale isolana, la femmina sterile) che le apparenta in un 'unica allusione metaforica: quella di una società inaridita che ha perso ogni barlume di sensibilità e di umana solidarietà.

Dal testo di Annamria Janin “LUNA'DIGA”, 2009


Il corpo come imprescindibile oggetto di riflessione è alla base della ricerca intimista dell’artista che connatura Lunàdiga come una bestia sterile - trasposizione della tragicità della condizione femminile, che non è fisiologica bensì sociale -, mediante candidi seni ingabbiati, lungi dall’essere oggetto del desiderio e che ritornano in Imperfetta. Serie di fotografie in bianco e nero, tasselli di una realtà che si svela sotto un’impietosa lente d’ingrandimento, uno sguardo quasi voyeristico che si sovrappone al gesto artificiale delle mani che scrutano tra seni veri e seni posticci. Gli stessi che l’installazione Mi sono nutrita esibisce senza soluzione di continuità a tappezzare le pareti.” testo di Roberta Vanali dal catalogo della mostra “Mi amo e mi nutro”,  Galleria La Corte Arte Contemporanea, Firenze.


- “Allora il Signore Iddio formò l'uomo dalla polvere della terra e alitò nelle sue narici un soffio vitale, e l'uomo divenne persona vivente”.  Monica Lugas ripete, fedelmente e in un apparente delirio di onnipotenza, l'atto supremo e terribile dell' Artifex per antonomasia ma, con lucida e pessimistica consapevolezza, ne certifica il fallimento.

Non vi è afflato vitale, non vi è virtù eroica da celebrare, non vi è trasformazione. Il fango rimane fango, parodia e vuoto simulacro di una vita non nata e il corpo “carnaio di sensi” inespresso, celebra la sua morte in una terra sommersa dal sangue: sangue sterile, che non redime e che vanifica il sacrificio.-

testo di Ivo Serafino Fenu, “Le discipline della terra” PAV Time in Jazz, Berchidda, agosto 2011


Gli storici hanno coniato il termine di floating gap per indicare quella frattura che si crea tra la memoria collettiva e la memoria culturale, cioè tra la memoria degli avvenimenti recenti, che dura fino a che non scompariranno coloro che li hanno vissuti, e la memoria istituzionalizzata, consegnata alla storia, ai libri, all’ intitolazione di strade e scuole e alle commemorazioni, propria degli avvenimenti ormai lontani o che si stanno allontanando e che si vuole, in ogni caso, tramandare ai posteri anche quando non sarà più vivo alcun testimone diretto.

La frattura o l’intervallo – il gap – è galleggiante – questa la traduzione letterale di floating – perché non è mai lo stesso in tutte le situazioni: se nella nostra società le commemorazioni cominciano a tenersi ancor prima che i testimoni siano scomparsi, proprio per l’imperativo di non dimenticare, in altre società o in secoli passati questo intervallo poteva essere anche di secoli: pensiamo all’ immagine dei “secoli bui”, che sono proprio i secoli dei quali si è persa la memoria.

Ma, prima ancora, è la stessa memoria individuale a essere galleggiante (altalenante?): non si è mai sicuri di conservare esattamente i ricordi nella propria mente, i particolari sfuggono e si affievoliscono via via che il tempo passa. Per questo c’è spesso bisogno dell’aiuto degli altri per ricordarsi come sono andate le cose. È così che la memoria, da individuale, diviene collettiva.

Non sappiamo se Monica Lugas, nel voler proporre alla nostra riflessione un’“altalena della memoria”, avesse presente anche tutto questo. Certo è che l’altalena è una metafora efficace per dire come agisce la memoria, quella individuale come quella collettiva e culturale: da un lato stabile e ben piantata a terra, dall’ altro lato oscillante e sospesa per aria. E come si insegna e si tramanda il gioco dell’altalena, in modo da potersi dondolare da soli, senza che qualcun altro ci spinga, così si deve tramandare il ricordo di quegli avvenimenti che danno significato al nostro presente e che la caducità del tempo e degli uomini rischierebbe di consegnare all’ oblio.

dal testo di presentazione del monumento "L'altalena della Memoria". Luca Vargiu, ricercatore di Estetica, Università degli Studi di Cagliari, 2014

 

Una stessa parola, “coscienza”, è usata nella nostra lingua per dire l’essere presenti a se stessi (nel modo tanto indubitabile quanto evidente che ognuno di noi sperimenta nel modo più naturale), ma anche per dire la presenza in sé stessi di ciò che permette il discernimento tra quanto è bene e quanto invece bene non è. Il primo dei due modi d’essere della coscienza ha avuto parte assai rilevante nelle teorie della conoscenza degli ultimi secoli, e la sua certezza si può dire stia a fondamento del pensiero della modernità; il secondo è invece all’origine della riflessione sulla morale, si può dire da sempre, e individua quella che per una tradizione di pensiero assai rilevante è una sorta di scintilla, presente persino nell’animo, indirizzato al male, di Giuda e di Caino. Di fatto non si dà un modo d’essere della coscienza senza l’altro: non si dà quindi accesso alle questioni della morale (e quindi a ciò che mette in questione il nostro stesso rapporto con gli altri) se non a partire da una “certa” presenza a se stessi; d’altra parte, non ci si riconferma presenti a se stessi se non nel rapporto con l’altro. Tra questi due poli si tende un campo di forze complesso, capace di produrre il senso, in definitiva, della gran parte delle cose che facciamo.

 

Che nell’arte contemporanea da qualche tempo si tratti inevitabilmente di questioni di coscienza, lo mostrano molti segni eclatanti, tra i quali sono senz’altro quelli lasciati dal lavoro di Monica Lugas, soprattutto negli ultimi tempi concentrato su temi quali l’immigrazione e capace di declinare l’uso di materiali molto diversi in modo del tutto personale. Nel suo caso, così come in quello di molti artisti impegnati su temi analoghi, ho l’impressione si rinnovi in modo sorprendente la tensione tra l’esser presenti a se stessi e il brillare della cosiddetta “scintilla di Caino” in ognuno di noi, e che la produzione del senso all’interno di questo campo di forze sia riportato inevitabilmente all’attenzione.

 

Nella mostra allestita allo Spazio Invisibile, l’artista pare affrontare la questione epocale dell’emigrazione conservando una sorta di bilico, assemblando i materiali che il mondo mette a disposizione e, insieme, creando (o ricreando) dal niente i propri stessi segni. Non si tratta tanto di fare un uso espressivo di un linguaggio assestato, quanto di reinventare ogni volta da capo i termini di un possibile discorso. Un discorso che, dal contatto con ciò che resta dell’accaduto, dal contatto con ciò che alla lettera avanza, riesca a rievocare l’accadere stesso, per la gran parte di noi occultato ormai dall’abitudine alla sua rappresentazione quotidiana.

 

Chi entri nell’unica sala della galleria si trova davanti una congerie di oggetti ibridi, a metà tra la maschera e la scultura, tra il reperto e il readymade, tra l’indumento cucito addosso e la giacchetta di salvataggio usata comunemente in mare. In particolare, mi pare, aver reinventato questo semplice strumento per la sicurezza personale, averne conservato la forma (e quindi la funzione) sottolineandone d’altra parte la natura di abito – e quindi la vestibilità, la familiarità che il corpo sente nell’indossarla – è forse l’operazione più inquietante presentata qui dalla Lugas: senz’altro quella che mostra più efficacia nel chiamarci in causa e nel disporci a percepire come toccanti anche le opere che nella piccola sala gravitano attorno a questa sorta di piega, nella quale sembra concentrarsi il senso dell’esposizione.

 

Secondo le convenzioni internazionali la giacchetta di salvataggio non deve solo sostenere in mare il corpo del naufrago: deve farlo nel modo corretto, garantendo che anche privo di coscienza, l’uomo in mare, quale che sia la posizione assunta dopo la caduta, si trovi con la testa e le vie respiratorie libere dall’acqua. Forzando un po’ la lettura, possiamo dire che la giacchetta di salvataggio sopperisce alla mancanza di coscienza con le proprie forme specifiche: quelle stesse che il lavoro della Lugas salva non solo e non tanto perché l’oggetto rappresentato sia riconoscibile, ma perché ancora, in un tempo che ci abitua alla disgrazia altrui con la ripetizione della sua rappresentazione, continui a far le veci di ciò che si rivela mancare, lasciandoci ancora lo spazio necessario a prendere coscienza.

 

L’impressione è che le parole, gli oggetti, le immagini presentati qui da Monica Lugas non facciano in fondo nient’altro che questo: ci riportano alla posizione giusta, rigirandoci in un momento di mancamento, restituendoci alla possibilità di un respiro. Lo fanno, come detto, rimettendo in moto un campo di tensione tutto interno alla coscienza, dove la consapevolezza del proprio essere al mondo è tanto originaria quanto la consapevolezza di essere al mondo con altri, e dove persino il ridere è sempre ridere con qualcuno, mai di qualcuno e delle sue sventure. Lo fanno ridisegnando il senso dei materiali che l’artista utilizza, ridefinendo i suoi stessi termini, per riscoprire l’origine di un possibile discorso nel “legare”, col significato di “tenere insieme”, “raccogliere” cose diverse in un luogo che sia davvero comune, e quindi, in definitiva, accogliere presso di sé ciò che pare altro, e che in definitiva non è se non ciò che ci restituisce alla certezza di noi stessi.

dal catalogo della mostra "Esclusione centrifuga", 2016, testo di Leonardo Casula.